BUONE PAROLE E CONSIGLI NON RICHIESTI


 

Henri Gouttin,  Diable ou Ange, 1970c.

Henri Gouttin,
Diable ou Ange, 1970c.

 Ossia, quello che una donna con diagnosi di cancro vorrebbe, o anche non vorrebbe, sentirsi dire dai familiari e dagli amici. Stralcio di un articolo di Chiara Mariani (Il male da vincere, con il rossetto) apparso su Sette  (22.11.2013). Un articolo sulla l’opportunità (o la necessità) dei silenzi che in qualche modo si ricollega al testo di Stephen King ( La paura di avere paura, 3) e a La malattia ha bisogno di ascolto, di Eugenio Borgna (In Note di ordinaria malattia, 5).

Quando cala la paura, si desidera solo la competenza degli esperti, l’affetto discreto di chi ti vuol bene, il silenzio di tutti gli altri. La diagnosi di una malattia come il cancro, scatena alcuni comportamenti: la delicatezza inaspettata di chi vuole starti vicino e alleviare l’angoscia; la prodigalità di consigli non richiesti da parte dei narcisisti, secondo la propria modesta opinione più ferrati in materia dei medici che hanno speso una vita a indagare un male così complesso e infido; l’irritante sicurezza di chi pensa di consolarti citando amiche o conoscenti che hanno attraversato questa malattia con scioltezza. Per cui, suvvia, non ti devi preoccupare.

Quando la diagnosi si abbatte su di te, la consolazione non la cerchi proprio perché sei troppo concentrato a prendere la strada giusta, innescando una tenzone con chi ti ha in cura, che purtroppo per te non possiede il verbo. Cerchi il sostegno di pochissime persone solide, fidate, pratiche. (…) Però ci sarà sempre qualcuno, meno coinvolto, che ha un parente la cui amica ha avuto un’esperienza simile e ne è uscita, citazione, «alla grande».

I consigli e le buone parole non richieste continuano a fioccare dopo l’operazione e travolgono anche le cure ormonali che dovrai affrontare per dieci anni: «Anche l’amica di mia nonna le ha fatte, ed è come bere un bicchier d’acqua» (citazione). Nel profondo del tuo cuore ringrazi il chirurgo che ha avuto il coraggio di una scelta impopolare che non ha risparmiato proprio nulla, le cure che ti regalano una speranza di vita, la cognata che ti assiste come una figlia e che non dimenticherai mai, l’amica che ti lava i segni dell’operazione, il nipote che vuole dormire vicino a te. Temi di imbatterti nei suggerimenti preconfezionati, nella consolazione spicciola di chi, per esorcizzare il male a proprio beneficio o sistemarsi la coscienza, interviene con parole che sminuiscono l’evento e che disturbano e affaticano chi le ascolta. Non è un obbligo provare empatia, ma nemmeno simularla.

La chirurgia ti ha privato, per fortuna, di un seno malato; le cure ormonali, che speri inibiscano il ritorno del nemico sempre in agguato, non sono una passeggiata. Ma va bene così, se sei viva, e tutto si supera, specialmente se hai la fortuna di avere intorno a te chi sa stupirti. (…) È utile la reazione di tutti coloro che ti si avvicinano senza insegnarti niente e senza fare paragoni con la sofferenza altrui. Capita spesso che la persona che sta male sia sola: sarebbe opportuno chiedere sottovoce di cosa ha bisogno. Si ha bisogno di tante cose: di qualcuno che ti accompagni alle prime visite, quando sei stordito e non capisci cosa devi fare; che passi con te la notte prima dell’intervento e quelle immediatamente successive; che condivida situazioni apparentemente più banali, come acquistare un reggiseno imbottito in attesa, almeno sei mesi dopo, di una protesi definitiva. Perché sentirsi belle è importante quanto seguire pedissequamente i consigli dei medici. Confortano tanto anche i gesti semplici, come la spontaneità della collega che viene a trovarti in ospedale all’indomani dell’intervento, quando cerchi di destreggiarti tra il dolore, la menomazione, i drenaggi e l’incertezza del futuro. E lei, senza dire una parola, ti regala un rossetto: le armi della seduzione non devono essere deposte. Impari la differenza tra sdrammatizzare e minimizzare e hai capito che un malato non si può ingannare. Di fronte a qualcuno che non sta bene, nell’incertezza personalmente opterei per un sincero «mi dispiace», oppure per il silenzio: so che non verrebbe considerato come una forma di disinteresse, ma di rispetto. Alla peggio, di pudore. (…).  Chiara Mariani