Tutto è cominciato 500 milioni di anni fa, quando le alghe verdi-blu che abitavano le rive dei laghi e dei fiumi decisero (si fa per dire) di modificare la struttura chimica di certe loro molecole complesse e di cominciare a produrre apigenina, una sostanza tutt’oggi diffusa in molti vegetali acquatici e terrestri (il nome viene da apium, prezzemolo). Fa parte di una famiglia di sostanze chiamate flavonoidi, che nell’evoluzione delle piante hanno assolto a diverse funzioni, antibatteriche, antivirali, antimuffa, antiossidanti, coloranti. Il nome viene da flavo, giallo, perché queste sostanze sono responsabili dei colori – non solo gialli – dei fiori. Un’altra varietà di flavonoidi – i cosiddetti isoflavoni – intervengono nella regolazione dei processi di crescita, per cui si trovano in abbondanza nei semi, e soprattutto nei germogli. Ne sono ricche le leguminose, in particolare la soia e certi foraggi, come il trifoglio e l’erba medica, tradizionalmente usate dai contadini per arricchire i campi dove poi verrà seminato il grano. Le leguminose, infatti, cooperano con certi batteri del terreno per fissare l’azoto atmosferico, e pare che gli isoflavoni servano proprio a questa cooperazione.
E’ stato solo negli anni ’40, a seguito di una epidemia di sterilità che colpì un gregge di pecore che mangiava una certa varietà di trifoglio, che si è scoperto che questi composti influenzano anche la fisiologia degli animali che li mangiano, esercitando azioni ormonali simili a quelle degli ormoni sessuali. Di qui il nome di fitoestrogeni, cioè estrogeni vegetali. (…).
Per millenni l’uomo ha mangiato in abbondanza di questi fitoestrogeni, ma nel corso dell’ultimo secolo la nostra dieta ne è diventata sempre più povera. Le ragioni principali stanno da un lato nella raffinazione delle farine, per cui non mangiamo più il chicco dei cereali ma solo l’amido, mentre i fitoestrogeni stanno in una pellicola esterna del chicco che viene asportata nella lavorazione, dall’altro nella diffusione dei prodotti animali (carni e latticini) come principali fonti di proteine, che hanno progressivamente soppiantato il consumo di legumi. Solo nei paesi poveri dove il cibo industriale non è ancora arrivato, e nei paesi orientali dove si mangia molta soia, l’uomo moderno continua ad assumere regolarmente la qualità di fitoestrogeni a cui è stato abituato nel corso della sua evoluzione. Nei nostri paesi occidentali ricchi e ben (si fa per dire) nutriti, nel volgere di un paio di generazioni abbiamo smesso di mangiarli. E oggi si sospetta che la carenza di fitoestrogeni nella dieta sia una delle cause del drammatico aumento di alcune malattie, fra cui il cancro della mammella nelle donne, il cancro della prostata nell’uomo, forse il cancro dell’intestino, le malattie di cuore e l’osteoporosi. Questi deboli ormoni, infatti, avrebbero sia un’azione ormonale, utile quando il nostro organismo produce pochi ormoni, sia un’azione antiormonale, utile quando il nostro organismo ne produce troppi.
Per far capire a chi non sa di endocrinologia come certi ormoni possano avere un’azione antiormonale abbiamo bisogno di una metafora. Gli ormoni possono essere immaginati come piccolissime chiavi che viaggiano nel nostro sangue e giungono in contatto con piccolissime serrature che si trovano alla superficie delle nostre cellule (i cosiddetti recettori ormonali).
Aprono la serratura, entrano nella cellula, e ne influenzano il comportamento. Ad esempio gli ormoni sessuali stimolano la proliferazione cellulare, il che può essere una cosa buona in un organo che deve crescere o rigenerarsi, ma può essere dannosa in presenza di un tumore. I fitoestrogeni possono essere immaginati come chiavi difettose, che quando giungono alla serratura devono provare migliaia di volte prima di riuscire ad aprirla. Ma mentre loro cercano di aprire, le chiavi buone (gli estrogeni forti prodotti dall’organismo) non possono agire perché trovano la toppa già occupata. I fitoestrogeni inoltre possono ridurre la sintesi degli ormoni sessuali, aumentare la produzione di una proteina che inattiva gli ormoni sessuali in eccesso, e bloccare i meccanismi con cui le cellule reagiscono agli stimoli ormonali. Potrebbero quindi avere un ruolo nella prevenzione dei tumori causati da un eccesso di ormoni. Ma potrebbero anche sopperire alla carenza ormonale che causa i disturbi della menopausa e favorisce l’osteoporosi. Gli alimenti con fitoestrogeni, inoltre, fanno bene per chi ha il colesterolo alto, l’ipertensione, il diabete e a chi vorrebbe dimagrire.
Naturalmente l’industria degli integratori alimentari è già arrivata ad offrire una varietà di prodotti, soprattutto estratti di soia, che consentono di ingerire elevate quantità di fitoestrogeni senza rinunciare alla nostra raffinata dieta da fast food. Il mercato è costituito soprattutto dalle donne in menopausa ed è favorito dalla dimostrazione che la terapia ormonale della menopausa aumenta il rischio il cancro della mammella e, almeno nei primi anni di trattamento, di infarto e di trombosi. Ma che questi integratori alimentari facciano bene, e solo bene, è tutt’altro che dimostrato. Essendo venduti come alimenti, l’industria non ha bisogno di produrre tutta la documentazione di efficacia e gli studi di tossicità che sono richiesti per i farmaci. La presunzione di innocuità si basa sulla constatazione che nelle popolazioni che mangiano abitualmente cibi ricchi di fitoestrogeni il rischio di tumori della mammella e di altre malattie croniche è più basso che da noi. Ma nell’entusiasmo pubblicitario ci si dimentica che in queste popolazioni la dieta è stata ricca di fitoestrogeni fin dall’infanzia, per cui l’organismo è abituato a reagire a queste sostanze, mentre oggi si propongono dosi più elevate di quelle raggiungibili con la dieta a donne cinquantenni che non ne sono mai state esposte in precedenza.
I fitoestrogeni, inoltre, potrebbero essere protettivi nei confronti dei tumori al seno nelle donne giovani (quando ci sono tanti estrogeni) ma non è escluso che in alte dosi possano aumentare il rischio quando ci sono pochi estrogeni (dopo la menopausa), specialmente per chi non è già abituato ad assumerne con la dieta. Va bene quindi introdurre qualche alimento a base di soia, accompagnato da altri legumi, molti cereali integrali, broccoletti e frutti di bosco, ad ogni età, ma è meglio essere prudenti, come sempre con le medicine, anche con quelle che dovrebbero servire per la prevenzione. (Franco Berrino, in Attive, nov. 2000)