a Elena C.


G. Romanelli, Untitled, 1970c

G. Romanelli, Untitled, 1970c

Se la malattia viene da alcuni considerata una metafora del male, e come tale capace di generare complessi di colpa, de-metaforizzare la malattia, ossia togliere ad essa un significato superstizioso che di fatto non ha, diventa un elemento di conquista sociale.

Numerose testimonianze della iconografia medievale rivelano come il castigo divino del peccato della lussuria si manifesti soprattutto con la mortificazione corporale inflitta alle mammelle ed ai genitali femminili. Quanto mai vario il panorama delle raffigurazioni in cui la figura femminile, sia essa inserita in una ambito di dannazione che invece solamente allegorica, viene rappresentata con i seni che vengono divorati da serpenti o da draghi oppure che ospitano rospi o altri orripilanti animali.

Il riconoscimento alquanto incerto di quanto i fantasiosi artisti erano soliti dipingere o scolpire sui seni delle malcapitate, ha fatto sì che alcuni abbiano creduto di riconoscere in certe raffigurazioni la presenza di una malattia della mammella, quasi a voler significare che la malattia sia essa stessa una punizione divina, soprattutto quando collegata ad un desiderio di bellezza, ossia la vanità, se non, ancor di più, ad una insana passione amorosa, ossia la lussuria.

Parte della iconografia, e soprattutto delle credenze magiche e superstiziose, permane anche al giorno d’oggi soprattutto quando si attribuiscono alla malattia cause non mediche e si vogliono trovare soluzioni terapeutiche alternative. Ce ne parla Marie-Josè Imbault-Huart (Les maladies ont une histoire, 1985): Talora possibilità terapeutiche efficaci sono rifiutate perché conferiscono alla malattia un marchio ben preciso ed appaiono piuttosto come una sospensione dalla morte. Allora risorge la credenza ancestrale nella magia, nel miracolo. L’uomo moderno ridà la mano ai suoi più lontani antenati e chiede a Dio, ai suoi santi, ai guaritori, ai ciarlatani, di liberarlo dalla morte. Così in un mondo moderno che si vuole governato dalla ragione, dalla logica, dalla scienza, il cancro ci riconduce, in quel che concerne la sua storia sociale, ad una natura umana dominata ancora da mal controllate pulsioni istintive ed arcaiche.

A questo proposito la scrittrice americana Susan Sontag, dopo aver esperimentato anch’essa il cancro, sostiene che non c´è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico. In Malattia come metafora, un saggio che trova nell’elemento autobiografico la molla principale, la scrittrice americana fa una spietata analisi dei luoghi comuni che fanno del malato un colpevole e ci invita a de-metaforizzare la malattia ed eliminare tutte le interpretazioni, che hanno sempre uno sfondo colpevolizzante, di cui talora si servono il potere, la morale e la legge per tenere a bada le condotte di vita degli individui. Scrive Umberto Galimberti: Contro l´immaginario qualcosa possiamo fare noi tutti, con un´informazione corretta che faccia piazza pulita del frastuono dei messaggi dettati dall’ignoranza, dalla paura o dal compiacimento moralistico. Ma l´immaginario, soprattutto quello difensivo che ci tiene lontano dagli altri, ci ricorda Susan Sontag, è più difficile da sconfiggere di quanto non lo siano le malattie (…) perchè basato sulla paura. Paura dell’aldilà quando se si crede nell´anima, paura della malattia e della morte quando questa fede viene a cadere.