Per quanto l’ottica della salute sia migliore di quella che parte dalla malattia, dobbiamo ammettere che della salute si parla spesso in maniera retorica, mentre la malattia rappresenta il vero banco di prova della salute. Qualche breve considerazione, scusandomi delle troppe citazioni.
Nonostante la mia professione mi porti ogni giorno a contatto con i malati e con i testi di medicina, sono molto pochi i riferimenti culturali sulla salute e sulla malattia che mi piace tenere in mente.
Il primo è molto antico e si deve a Ch’in Yueh Jen, un filosofo cinese del III sec. a.C., che afferma che i medici bravi curano le persone sane, quelli scadenti le persone malate. Un’affermazione apparentemente paradossale, ma che invece indica con immediata chiarezza quello che dovrebbe essere l’atteggiamento del bravo medico: partire da ciò che era il paziente prima della malattia e non dalla malattia stessa.
Il secondo riferimento è, al contrario, recente e già da me citato. Scrive Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano: Non si comprende la malattia se non si coglie la sua singolare affinità con la guerra e con l’amore, se non si riconoscono i compromessi, le finte, le necessità assolute, mescolati nel bizzarro ed irripetibile amalgama di un temperamento e di un male. Una descrizione che condivido pienamente e sulla quale non avrei nulla da aggiungere o modificare, anche se comprendo coloro che della medicina hanno una visione più idealistica. O forse astratta, come gli stessi medici che considerano le reazioni dei pazienti come delle stranezze se non dei psichismi individuali.
Se volete, più che di un compromesso, come scrive la Yourcenar, si tratta della ricerca di un giusto equilibrio tra la considerazione da dare al paziente e quella da attribuire alla malattia. Un equilibrio di competenze e di obbiettivi certamente non facile. Quando parliamo di cura molto spesso non si capisce se ci riferiamo al paziente o alla malattia. C’è però una notevole differenza: curare una malattia significa aggredirla, annientarla o arrestarla in qualche modo. Curare un paziente, invece, significa favorire e potenziare la sua capacità di vivere. Due tipi di intervento assai differenti tra loro (J. Mathers).
Qualcuno ha scritto che il medico dovrebbe impiegare il pugno di ferro con un guanto di velluto. Questa espressione, oltre che sgradevole, non rende l’idea della componente razionale delle scelta medica e relazionale del rapporto con la paziente; preferirei parlare piuttosto di un atteggiamento delicato ma determinato, e al tempo stesso di una determinazione espressa con delicatezza.
Una nota espressione di Shri Ramakrishna afferma che la malattia è il prezzo che l’anima paga per occupare il corpo, come un affittuario paga una pigione per l’appartamento che abita. Questa affermazione dovrebbe indurci a pensare che la malattia non dovrebbe intaccare più di tanto lo spirito. Se pure questa potrebbe essere una prerogativa di uno spirito superiore (comunque facile in caso di banali indisposizioni), per i comuni mortali il coinvolgimento emozionale è generalmente molto importante, anche se non per questo necessariamente negativo.
Forse dovrei scusarmi ancora per troppo citazioni extra-professionali (sarà il clima natalizio), ma mi piace ricordare anche quello che scrive K. Gibran nelle preziose pagine de Il Profeta: Il dolore è il rompersi del guscio che racchiude la vostra intelligenza. Come il nocciolo del frutto deve rompersi per esporsi al sole, così dovrete conoscere il dolore. Ecco allora che la malattia allarga la dimensione dell’uomo e stimola, come appunto la guerra e l’amore, la riflessione sui grandi temi della vita. E quanto sostiene G. Lagorio: Un malato non è più un uomo nell’accezione comune: ha superato di colpo le tappe che richiedono anni di applicazione: filosofia, storia, religione hanno lunghe sedimentazioni nel cuore di un uomo sano. In quel malato la sedimentazione avviene a ritmo vertiginoso: l’ascesi mistica, o la rinuncia stoica, la verità comunque libera da egoismi, tutto questo arriva con il male.
In definitiva, un bilancio che può divenire anche positivo così che le malattie riescono ad insegnare verità che in nessun altro modo o occasione si sarebbe riusciti a capire ed imparare. So bene quanto questo sia difficile da capire, almeno fino a quando si è coinvolti in una condizione di malattia. Suona paradossale, persino ironico, sostenere che le malattie del corpo, come quelle dell’anima, rinnovano l’uomo e che le convalescenze fisiche non sono meno soavi e miracolose di quelle spirituali.
Anche se non si può con ciò sostenere che forse fa bene, qualche volta, essere malati, tuttavia non è sbagliato affermare, come scrive Eraclito, che la malattia rende piacevole e buona la salute, come la fame la sazietà, la stanchezza il riposo.
Occorre inoltre considerare che con la malattia vengono ridimensionati non solo i valori interiori, ma anche quelli esteriori ed in particolare i rapporti con le persone. Qualcuno ha scritto che sono poche le case degli amici in cui un uomo sceglierebbe di stare quando è ammalato. La presenza degli altri è infatti fondamentale e, osserva Cechov, perfino essere malato è piacevole quando sai che ci sono persone che aspettano la tua guarigione come una festa.
Per finire, consentitemi un breve riferimento ai medici, in particolare a quelli che lottano per la salute, come gli artisti lottano per il bello, come gli scienziati lottano per il progresso… Forse vi sono più uomini d’affari della salute che medici che hanno passione per la loro arte. Della scienza costoro, credetemi, ne sono… i poeti.