E’ difficile accettare l’idea che la malattia possa far parte della vita, soprattutto se essa ci riguarda personalmente. Eppure, per quanto straordinaria, dovremmo fare della malattia una condizione ordinaria o per lo meno accettabile. Una piccola serie di brevi annotazioni letterarie e saggistiche – a cadenza settimanale – preziosa per originalità e importanza degli autori.
La filosofa e mistica francese Simone Weil ci parla di quando La sventura si impadronisce dell’anima.
Nell’ambito della sofferenza la sventura è una cosa a parte, specifica, irriducibile. E’ ben diversa dalla semplice sofferenza. Si impadronisce dell’anima e le imprime fino in fondo il suo proprio marchio, quello della schiavitù. La sventura è uno sradicamento dalla vita, un equivalente più o meno attenuato della morte… Il pensiero fugge la sventura con la stessa prontezza e irruenza con cui un animale fugge la morte… Quando il pensiero è costretto dall’impatto con il dolore fisico, anche se lieve, ad ammettere la presenza della sventura, insorge uno stato di violenza simile a quello di un condannato a morte costretto a guardare per ore e ore la ghigliottina che lo decapiterà.
(…) Un altro effetto della sventura è quello di rendere l’anima sua complice a poco a poco, iniettandole il veleno dell’inerzia. In chiunque sia stato a lungo sventurato si insedia una complicità con la sventura. E questa complicità intralcia ogni sforzo che egli potrebbe compiere per migliorare la propria sorte, giunge persino ad impedirgli la ricerca dei possibili mezzi per essere liberato, e qualche volta il desiderio stesso della liberazione. Avviene pertanto che lo sventurato si adagi nella propria sventura, sicchè gli altri avranno l’impressione che sia soddisfatto.
(…) La sventura rende Dio assente per un certo tempo, più assente di un morto, più assente della luce in una cella immersa nelle tenebre. Una sorta di orrore sommerge tutta l’anima. Durante quest’assenza non c’è nulla da amare. E se in queste tenebre dove non vi è alcunché da amare l’anima smette di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva. Questo è terribile. Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, seppure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora un giorno Dio le si mostrerà e le svelerà la bellezza del mondo, come accadde a Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare, cade già in questo mondo in qualcosa di quasi simile all’inferno.
Simone Weil, Attesa di Dio (1942), Milano, Adelphi, 2008