Domenico Morelli (attr.) – La Balia, 1859
di Daniele Piccini (Rivista Poesia, XIX, 201, pagg 3-4)
Se osservata senza limiti di tempo e di spazio, attraverso i secoli e le civiltà, la poesia può perdere molto della sua tecnica riconoscibilità, del suo specifico valore linguistico ed euristico e, in qualche modo, mutarsi in una delle possibili cartine di tornasole del volgere delle idee, delle concezioni estetiche e morali, delle condizioni di vita, come un fatto eminentemente culturale. È quel che accade di verificare a chi voglia accettare l’invito (e la sfida) di Alfonso Maria Pluchinotta a inoltrarsi in una scelta di poesie che dalle civiltà primitive e antiche ai contemporanei, passando di scorcio per i classici e approfondendo le letterature moderne, si sono occupate, con diverso segno, intenzione e prospettiva, del seno. Non è un caso, per quanto appena detto, che l’autore di questa scelta di testi, intitolata Il seno in-cantato. Antologia di poesie sul seno (Crocetti, Milano 2005, settimo volume della ormai ricca e variegata collana Anthologia, quasi un caleidoscopio, una bussola enciclopedica del mondo sotto specie poetica), sia non un critico o uno storico della letteratura, bensì un chirurgo oncologo, appassionato ricercatore di testi che possano intrecciare il discorso umanistico con quello anatomico, fisiologico e appunto latamente culturale.
Non nuovo a queste imprese, a cavallo tra il collezionismo enumerativo, la curiosità storico-scientifica e il gusto per la variazione letteraria su tema dato, Pluchinotta aveva curato due anni fa per le stesse edizioni Crocetti un’analoga antologia poetica sul particolare anatomico, forse meno ‘parlante’ culturalmente, della mano (Versi alla mano, 2004). E quanto al seno, Pluchinotta approda a tanto vasta ricognizione in versi dopo esser passato, da vero cultore e specialista dell’argomento, attraverso una monografia di taglio storico come Storia Illustrata della Senologia – Tra Scienza e Mito (Ciba-Geigy Edizioni, Saronno 1989) e il catalogo della mostra da lui curata Incanto e Anatomia del Seno (Charta, Milano 1997), così che nel complesso le trouvailles dell’autore sembrano voler disegnare, attraverso linguaggi e strumenti di rilevazione differenti, una sorta di storia antropologica e sociale del seno o, meglio, della sua rilevanza culturale nel corso delle civiltà.
Quel tanto di feticistico che giocoforza alberga nell’operazione viene bilanciato proprio dalla vastità di orizzonti per cui il motivo viene inseguito. Nel setaccio del ricercatore, a maglie ora più larghe ora più strette, si depositano così ‘reperti’ che parlano di verità diverse, lontane e disparate, di punti di vista e assilli affatto distanti, convincendoci alla fine che il particolare anatomico ma anche simbolico del seno ha una tale rilevanza vitale e culturale da non poter essere in alcun modo ridotto a poche essenziali categorie, ma da prestarsi piuttosto a una infinita serie di sensi riposti, di incanti (per stare alla suggestione del titolo) e anche di paure.
Come segnalato all’inizio, insomma, e come gli interessi del curatore suggeriscono, questo volume attraversa solo tangenzialmente la letteratura, come uno dei campi del conoscere e dell’esprimersi umano, per poi toccare e a volte sconfinare in settori d’indagine e di interesse diversi: la psicanalisi, il mito, la storia sociale (appunto), la storia del costume, ma anche la retorica e naturalmente la medicina. Dato persino ovvio se solo si pensa alla selva di significati e rimandi cui il seno dà origine, preso tra la funzione fisiologica ed essenziale dell’allattamento (dunque la maternità), la sua valenza estetica ed erotica di oggetto del desiderio e di arma di seduzione e, d’altra parte, la sua natura di particolare anatomico distintivo della donna, in qualche modo emblematico del ciclo di fioritura e declino.
Proprio l’inerenza al ciclo vitale è quella che ha sempre mosso le culture e i singoli a confrontarsi in forma artistica, mitica, fantastica con la sua potenza e la sua fragilità, nesso, a quel che la lettura suggerisce, indistinguibile, come in fondo accade di tutte le cose della vita se guardate con lente accurata. La fioritura e la fertilità dei seni hanno generato catene di metafore fermentanti, allusive spesso alla natura: celebri e fondative quelle del biblico e insuperato testo amoroso-spirituale del Cantico dei cantici, per cui i seni sono “come due cerbiatti”, “grappoli di datteri” e “d’uva”, “torri”, mentre secondo il mito greco dai seni di Giunone che allattava il piccolo Ercole sarebbe spruzzato il latte che nel cielo andò a formare la Via Lattea. Se di questo aspetto generativo e fertile dànno conto soprattutto alcune delle tredici sezioni, appendici incluse, in cui il materiale poetico è diviso da Pluchinotta – e sono “I colori delle metafore” e “Le fonti del latte” –, altre si soffermano sullo sfiorire e lo spegnersi del fiotto vitale, sul “Declino delle forme” appunto, che può dettare testi elegiaci, sarcastici o amaramente meditativi.
Corollario doloroso e non più naturale (cioè inerente al ciclo vitale) ma proprio patologico di tale specola è dato dalle poesie, tutte moderne e contemporanee e tutte scritte da donne, che si soffermano sull’esperienza, la più vicina professionalmente al curatore, del seno malato (“Il seno ferito”). Ma anche qui si può risollevare, d’un balzo, la resistenza vitale e un’ombra mitica, come il ricordo delle guerriere amazzoni (che si recidevano, per poter meglio usare l’arco, il seno destro), quanto accade nel testo di Deena Metzger, “Non ho più paura”: “Non ho più paura degli specchi nei quali vedo il segno dell’Amazzone, che scaglia frecce. / Vi è una sottile linea rossa che attraversa il mio torace, lì dove era entrato un coltello, adesso / un ramo circonda la cicatrice e si porta dal braccio al cuore. / […] / Ho il corpo di un guerriero che non uccide né ferisce. / […]”.
L’esperienza, ora trasfigurata come qui, ora invece descritta con minuzia allucinata, della malattia e dell’intervento chirurgico ci porta su uno dei fuochi di questo lavoro antologico, vale a dire il dar parola alla voce femminile, alla donna in dialogo e in sussultante intimità con il proprio corpo (nella sezione “Le lune del paradiso. Sguardi al femminile” ma anche nella già citata “Le fonti del latte”). C’è l’esperienza ineguagliabile di farsi cibo per il piccolo, di scorrere nelle sue vene, come dice in “Mio piccolo cannibale” Marie Noël: “[…] / Bevi, avido mio piccolo, colma la tua fragilità / Di me che mi chino e ti sono riversata. / Capta questo latte caldo, e il tuo aver trafitto / La gemma della mia mammella… Ah! tu mi ferisci! // Conoscevo la dolcezza di essere ferita, / Aperta e sanguinante come un’arancia viva / Che si scioglie in miele, non più sotto la gengiva, / Nient’altro lasciato alla gola oltre a una gioia? // Adamo! Adamo! la dolcezza di essere mangiata, / Chi la conosceva? Chi conosceva il supplizio caro / D’esser la sorsata commovente a scivolare / E trascinarmi tutta, nel mio piccolo mutata…?”; e c’è la scoperta dei seni come fine della fanciullezza, iniziazione a una vita adulta spesso violenta e sterile, alla ricerca frustrata di amore: “[…] / Piccole madri – dice Tess Gallagher ai suoi seni –, non trovo figli per voi. / Li ho cercati in un uomo / che si muoveva nell’aria come un dio. / Mi portava nuvole / e le stelle che gli avanzavano dalle sue avventure. / Un altro mi baciò su un molo, in Georgia, / ma c’era sangue sulle sue mani / e whiskey puzzolente nel vento. L’ultimo / ha fatto di me una bugiarda finché ho rubato / quel che non potevo vincere. Amori miei, / cos’è questo specchio in cui mi avete lasciata? // Ve lo avrei potuto dire subito / che i guai sarebbero venuti / da altre mani, che bocche aguzze / vi avrebbero scovate là dove dormivate. / Ma di sicuro fredde pene ve ne ho fatte / patire anch’io come gli altri, / ho dovuto fare molta strada e accidentata, / per arrivare a questa morbidezza. / Miei bravi pagliacci, come potevo immaginare che per tutto questo tempo / sono state le vostre grazie pasticcione a tenermi in vita / mentre il cielo era un sogno sfortunato”.
Se questo è l’intimo dialogo al femminile, certo non mancano gli sguardi maschili. La letteratura galante, erotica, amorosa sul seno descritto e cantato dagli uomini rappresenta anzi il grosso della tradizione (in prosa si arriva fino al limite dell’onirica metamorfosi dell’uomo in una ghiandola mammaria, come immaginato, per una metamorfosi kafkiana, da Philip Roth in The Breast, del 1972). In tutto il nostro Medioevo e oltre esisteva un preciso canone per la rappresentazione della bellezza femminile: per ogni parte del corpo, descritto dall’alto verso il basso, c’era una norma di bellezza e decenza e una serie, quasi fissa, di metafore e paragoni che nei testi più analitici e descrittivi (altro il discorso per le vaghe e sublimi figurazioni stilnovistiche e petrarchesche) non potevano che essere variati a piacimento e montati con maggiore o minore abilità.
Quella stessa serie fissa che nel Quattrocento arriva nelle mani di abili cultori e viene trasfigurata in forma parodica, nel genere celebre e gustoso della poesia nenciale (il caposaldo è La nencia da Barberino, attribuita a Lorenzo il Magnifico), e che ancora rifiorisce, virtuosistica e concettosa, nell’insuperabile gioco “maraviglioso” di Marino (modello a tant’altra poesia barocca del genere), che ci ha lasciato qualche manierata descrizione del seno, come nell’ottava 40 del canto IV dell’Adone: “Che dirò poi del candidetto seno, / morbido letto del mio cor languente? / ch’a’ bei riposi suoi, qualor vien meno, / duo guanciali di gigli offre sovente? / Di neve in vista e di pruine è pieno, / ma nel’effetto è foco e fiamma ardente; / e l’incendio, che ’n lor si nutre e cria, / le salamandre incenerir poria”. Ma, anche dal punto di vista dell’osservazione esterna, non tutto è retorica, convenzione, topos.
Si possono, anche negli sguardi al maschile, soprattutto in epoca moderna, cogliere significativi grafici psicologici dello scrivente, che rinviano a vitalismo o inibizione, ardore desiderante o senso di esclusione. Basta prendere ad esempio come reagenti i due grandi del nostro Decadentismo, che anche da questo parziale punto di vista fanno risaltare l’opposizione dei loro immaginari. Giovanni Pascoli nel brano antologizzato dai “Filugelli”, nei Nuovi poemetti, dà voce ad una fantasticheria, che conferma il quadro di esclusione e rêverie proprio del “fanciullino” (“I filugelli”, Canto primo, V: “Ma tu ti sganci il candido corsetto, /o bionda Rosa. Fuori è chiaro il sole, / e due colombi tubano sul tetto. // Ti slacci il busto. Odore di vïole / bianche è nell’orto. Oh! lascia come prima. / Bello è come è. Non altro fior ci vuole. // Ci son due bocci ch’hanno il rosso in cima”). Da parte sua, D’Annunzio, fin dal giovanile Primo vere e poi con costanza, esprime un ardentissimo e panico desiderio di possesso, uno slancio ebbro e pagano, che fa fiorire di continuo immagini di sensualità: “io voglio… voglio su ’l tuo seno turgido / morir morire, o Lilia!”; “Il seno latteo nudo risveglia / i desiderii: sotto la cerula / clamide tumideggia / l’eterea forma e palpita” (entrambi i passi da Primo vere); “Bei seni da la punta erta fiorenti, / su cui mi cade a l’alba il capo stanco / allor che ne’ supremi abbattimenti / del piacere io m’irrigidisco e manco” (da Intermezzo), ecc.
Venendo più prossimi a noi, si possono leggere i testi diversamente intonati di Giovanni Raboni e di Giovanni Giudici: il primo, in “Supina” da Cadenza d’inganno, ferma un momento di dolcezza e di abbandono non più sensuale ma quasi sororale nell’amata; il secondo nella bellissima “Alla beatrice” (dal volume del 1972 O beatrice) dà una prova altissima del suo ‘gergo’ all’incrocio tra memoria letteraria e lingua comune, tra oggettualità e onirismo della visione, trasfigurando i seni – oltre tutto nella “beatrice” della tradizione e in un Leitmotiv da filastrocca colta – in ‘luoghi’ antropologici e allusivi, forme infinite e irriducibili della bellezza e del suo consistere nel grigiore quotidiano.