ARTE COME VITA (E TERAPIA) IN ALCUNE CONSIDERAZIONI AUTOREFERENZIALI
Quella volta tu non c’eri. Ma era come se ci fossi. Ho visto una scultura di Alberto Giacometti che si chiama Carezza : vi era l’impronta della mano su di un marmo bianchissimo. Era netta ma quasi impercettibile. La breve didascalia recitava: “l’artista coglie il momento in cui la mano che ci tocca con amore diventa la nostra sensazione di essere amati e di amare”. Lo avevamo provato quel momento indefinito e prodigioso, quello in cui si smette di essere qualcuno che è stato toccato e e si diventa portatori della carezza che rimane dentro di noi. Forse quel marmo voleva dirci anche che la carezza ci trasforma in una pietra, ci pietrifica così da non sentire nient’altro che la carezza. Era un marmo bianchissimo, il colore che sapevamo rappresentare l’astratto. Il bianco, apparentemente il nulla, invece il tutto perché l’insieme di tutti i colori.
E poi ho scoperto che il titolo vero della scultura era Carezza (nonostante le Mani) perché Giacometti voleva significare che si può diventare il vettore di una carezza anche senza mani carezzevoli. Come Dio può esistere senza gli esseri umani – pensavo -, come il cielo può esistere senza gli occhi umani… Ancora una volta il vuoto che si riempie di noi è molto più bello che un pieno di cose belle ma non nostre. Ripensandoci, ancora una volta eravamo come bambini, capaci di stupirci, ma alla fine di ripetere le cose con parole nostre. I libri, le poesie, l’arte non erano poi così belli se ci venivano regalati, ma solo se venivano da noi conquistati e… consumati. Un cibo per l’anima.
Muzio Mercuzio, I frutteti sanno attendere, 2013.